Ho Scritto Altre Volte Delle Mie Inseparabili Borse Freitag. Qui Quando Avevo Deciso Di Mandare In Pensione




Ho scritto altre volte delle mie inseparabili borse Freitag. Qui quando avevo deciso di mandare in pensione la prima di esse, cosa che non è mai accaduta. Ho portato con me la macchina fotografica tenendola in borsa e per uno strano caso lei ha iniziato a scattare. Non ho mai considerato il punto di vista della mia borsa. E' sempre con me e mi osserva. Quella inquadrata, infatti, è la punta del mio naso. Quando si parla dello spirito delle cose.
Nel precedente post parlavo di wabi-sabi, ovvero della bellezza delle cose imperfette. In Giappone la parola mono, <cosa> significa anche creatura. Nel pensiero giapponese non c’è una precisa linea di demarcazione tra gli oggetti e le creature viventi. Il cosmo è una struttura compatta dove ogni elemento partecipa all’insieme*.
Ecco, io vi partecipo con la mia borsa.
* Leonardo Vittoria Arena, Lo spirito del Giappone.
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Questo è il lavoro di un seminario di progettazione a cui ho partecipato quando ero ancora studente. Era chiesto di progettare una ludoteca utilizzando elementi prefabbricati. Il mio primo pensiero è andato ai mattoncini Lego. Ho avuto l’opportunità di ricomprare per l’occasione dei mattoncini dopo tantissimi anni e questo lo considero il premio del seminario. Mi ricordo che al termine dei lavori, durante la cerimonia conclusiva, dinanzi ad un pubblico numeroso, mentre andavo alla cattedra per illustrare il mio progetto, il modellino mi cadde dalle mani riducendosi in pezzi. Giuro che stavo per mettermi a piangere! La struttura è uno ziqqurat con un castello interno in legno ed un rivestimento esterno in vetroresina, una rifinitura superficiale levigata proprio come quella dei mattoncini. L'ala blu indica l’ingresso e lascia intuire una movimento ascensionale al suo interno, contiene l’amministrazione ed i bagni, mentre tutto il resto della struttura è riservata allo spazio del gioco. Uno spazio centrale a piano terra per le attività collettive. Un percorso didattico lungo il perimetro, come pure sulla rampa che conduce al primo livello. Tutti i livelli sono collegati anche con scale a pioli ed ascensore. L’edificio è completamente introverso e prende luce soltanto dall'alto dagli oblò che riproducono gli occhi dei mattoncini. Soltanto nell’ultimo livello un periscopio permette di traguardare oltre lo spazio interno.
Scricciolo / Mite

566 Chiedeva da bere, una tigre, in agonia - Filtrai il deserto - dalla roccia, una goccia raccolsi e la portai nella mano. Le pupille regali, nella morte offuscate scrutai, per trovare nella retina, un'unica visione dell'acqua e di me. Non per colpa mia: che ero corsa piano. Non per colpa sua: che morì quando stavo per raggiungerla, ormai, ma perchè, era un fatto, essa era morta. ... A Dying Tiger - moaned for Drink - I haunted all the Sand - I caught the Dripping of a Rock And bore it in my Hand - His Mighty Balls - in death were thick - But searching - I could see A Vision on the Retina Of Water - and of me - 'Twas not my blame - who sped too slow - 'Twas not his blame - who died While I was reaching him - But 'twas - the fact that He was dead - Emily Dickinson (1862)










Si è chiusa l’esperienza del Cilento Labscape, un progetto di ricerca FARO svolto dal Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, per cui sono stato responsabile della comunicazione grafica. Il progetto si è posto l’obiettivo di indagare il vasto e composito territorio cilentano e costruire processi di sviluppo attraverso una serie di laboratori e non solo. Uno di questi, svoltosi a Sapri, ha realizzato micro-azioni che hanno modificato concretamente le abitudini di una comunità di abitanti. In questo post solo una selezione delle oltre 500 pagine del report finale che documenta il lavoro svolto negli ultimi due anni.
Tza, Tzi e Ki a ristorante!

Nell'ambito della rassegna Eco-gastronomica che si sta svolgendo a Vallesaccarda in Irpinia, ho tenuto insieme a Diego De Dominicis un workshop con le classi dei licei artistici territoriali sul tema del cibo. Diego ha presentato la sua attuale ricerca fotografica su come rappresentare una ricetta culinaria attraverso una ricetta fotografica, io ho invece raccontato l'esperienza di dacosanascecosa e come molti utensili da cucina, con metodo, possono trasformarsi in altro. Con me, immancabili ormai, c'erano anche Tza, Tzi e Ki. Imperdibile a Vallesaccarda l'appuntamento con la cucina di gran classe del ristorante Oasis. E' un'esperienza irrinunciabile. Fatevi un'idea attraverso i commenti dei suoi ospiti. Hanno conosciuto Tza, Tzi e Ki e hanno chiesto di averli ospiti al ristorante. Naturalmente non si sono fatti pregare. Sarà possibile trovarli lì fino all'8 dicembre.







Bellissime le storie di Cesare Monti legate alle sue copertine di dischi.
Altre potrete trovarle sul suo sito.
Banco del Mutuo Soccorso, Darwin, 1972
L’orologio era un vecchia cipolla che mio padre aveva ricevuto dal nonno. Ferroviere presso la stazione di Milano quando questa si trovava accanto al teatro Smeraldo, aveva trasmesso la passione per i treni a mio padre. Scattai la foto della copertina inserendo direttamente la mia mano, poi Wanda preparò per il quadrante, un disegno che sovrapponemmo in fase di stampa. Inserimmo come lancette la foto di Francesco Di Giacomo di spalle vestito come un personaggio di Dickens, da notare che la borsa che Francesco ha ai piedi è la medesima usata nella copertina di Battisti, I Giardini di marzo. Per quanto riguarda invece l’interno della busta dovendo fotografare il gruppo che a dorso nudo teneva sollevato un grande vassoio ricolmo di orologi, chiesi l’aiuto di un giovane aspirante fotografo. Francois Valloton svizzero e nipote di un grande artista surrealista, si era presentato la mattina in perfetto loden, accogliendolo in pigiama lo aveva lasciato perplesso, spiazzandolo. La sera vedendomi poi lavorare continuava a dire che ero completamente matto. Rimase con me per tre anni.
Lucio Battisti, Il mio canto libero, 1972
Riunimmo in una sala posa tutti gli amici, artisti della Numero Uno, segretarie, Battisti e fidanzata, mio fratello. Quando sistemai tutti quanti mi resi conto che nell’immagine sbucavano sempre le teste, allora li misi sdraiati facendogli alzare le braccia. Quando giungemmo allo scatto sulle gambe per l’interno della busta, fu il delirio, soprattutto da parte degli uomini, non volevano togliersi i pantaloni, qualcuno se li arrotolò. Le donne più disinibite non si fecero problemi. Avevo progettato la copertina per essere trasparente per cui l’inquadratura doveva essere tale che i piedi, una volta estratto il disco, toccassero le mani. Purtroppo per ragioni di costi e a causa di una stupida caparbietà di Giulio, la copertina fu stampata su supporto tradizionale però l’immagine divenne un simbolo.
Edoardo Bennato, Non farti cadere le braccia, 1973
Oggi si chiama packaging, ma allora era una semplice trovata. Sta di fatto che mi chiesero di studiare una copertina per questo nuovo cantautore di nome Edoardo Bennato, uno strano personaggio che faceva i concerti da solo. Si esibiva come un funambolo da strada, chitarra, fisarmonica ed una bizzarra trombetta stretta su un cavalletto di metallo appoggiato sulle spalle davanti le labbra ed al piede un ingegno a leva che percuoteva un tamburello. Il titolo del long playing era Non farti cadere le braccia. Non c’era tanto da pensare, la risposta stava tutta nel titolo. Cosa c’è di più disperante e fiducioso al contempo di una confezione di fiammiferi dove è rimasto un solo zolfanello?
Angelo Branduardi, Alla fiera dell'est, 1976
Un giorno si presentarono da me i fratelli Zard con una copertina di un lp di Elton John chiedendomi di ispirarmi a quella per l'album di Angelo Branduardi. Angelo lo avevo già conosciuto un anno prima, quando il manager del Santa Tecla, un locale mitico per i musicisti milanesi nel quale nacque la musica rock degli anni 60, me lo aveva portato in studio per fare delle foto che poi utilizzò per il suo primo LP. Non considerando minimamente il suggerimento proposi un’immagine secondo me più adatta alle sue poetiche, arricchendo il tutto con un libro di foto di una decina di pagine. Il disco ebbe un grandissimo successo per la qualità delle canzoni e in parte anche perché uscendo sotto Natale la gente lo acquistava come strenna visto che poteva condensare due cose in una, un libro ed un disco.
Randy Weston, Randy Weston meets himself, 1976
Questa copertina faceva parte di una collana di jazz denominata Meets. Non ho mai capito il jazz, per ignoranza certo; è una musica che devi amare fino in fondo, non ha mezzi termini. Comunque ebbi l’occasione di conoscere grandi musicisti, penso i più grandi. La cosa strana però successe accidentalmente. Ero andato al cinema con degli amici a vedere l’ultimo film di Woody Allen Annie e le sue sorelle. Ad un certo punto del film, Woody Allen è in un negozio di dischi e sta parlando con una delle sorelle di Annie, quando afferrato un disco ne apre la copertina coprendo con l’immagine quasi per intero lo schermo. Accidenti era la copertina del disco che avevo fatto per Rendy Weston! Ne fui sorpreso e onorato.
Fabrizio De Andrè, Rimini, 1978
Fabrizio mi invitò a trascorre a Roma con lui, Bubola e Dori il periodo di registrazione del disco. Passammo insieme un paio di settimane. C’erano molte persone che venivano a trovarlo in sala. Ricordo il giorno che si presentò Moravia. Era accompagnato da una splendida donna, io rimasi impacciato e non osai dire nulla. Invece una sera andammo a cena da Elio Petri. Fui colpito dalla sua umanità e anche dalla sua tristezza velata di senso di sconfitta. Dopo i grandi successi di Un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso il tonfo di Todo Modo lo avevano isolato e amareggiato. Parlai con lui tutta la sera, Fabrizio ne era entusiasta anche perché avrebbe amato che mi fossi dedicato al cinema. Provavo una grande affetto per De André. Era un uomo difficile ma di grande generosità umana, non sapeva nascondere nulla di sé mostrandosi in tutte le sue tribolazioni. Quando decisi di fare le foto per la copertina, telefonai al comune di Rimini ma non fui filato, forse anche a causa di una mia gaffe: quando spiegai il senso dell’operazione parlai di Rimini come di una città paracadutata la cui esistenza era dovuta al turismo estivo e che nell’immaginario collettivo rappresentava la proiezione dei sogni ludici della gente. Dall’altra parte del filo ci fu il gelo e dopo poco, il responsabile del comune di Rimini iniziò con una filippica sullo spessore storico di Rimini citandomi Dante (Francesca da Rimini) e la sua storia millenaria. Risultato fu che non mi offrirono né l’ospitalità né nessun altro supporto, con la scusa che erano troppo occupati da quella moltitudine di vacanzieri. L’unica cosa fu di prenotarmi una stanza che dovetti pagare.
Pino Daniele, Pino Daniele, 1979
Pino quando lo conobbi usciva da un grande successo discografico, Na tazzurella 'e cafè, era frastornato ma continuava ad avere l’ingenuità di un bambino. Non sapendo che mettere per fare le foto, Wanda lo accompagnò per negozi ma ci rendemmo subito conto che la cosa migliore era la sua spontaneità. Per questo non feci altro che andare al suo albergo e scattare mentre si faceva la barba. L’idea era che un uomo per quanto cerchi di mutare il suo aspetto in fondo al cuore rimane sempre se stesso.